I passerotti dal capino grigio fanno da eco al delizioso profumo delle colazioni che ci prepara Rachida. Si poggiano sulla fontana del patio, all’interno del Riad, e si fanno ammirare dispettosamente fintantoché non ti salta in testa la malsana idea di fotografarli.
Hamid ridacchia.
Tutto è tremendamente geometrico. Tutto tranne l’andamento del traffico nella Medina. Carreggiata e marciapiede sono una becera fantasia solo europea. Il rischio adrenalinico di incocciare contro qualcuno mentre si va è di grande divertimento. Sì. Soprattutto per le migliaia di “motorinisti” indiavolati che sgattaiolano tra le gambe dei pedoni saltellanti che se la prendono con comodo, zigzagando tra una bancarella di verdura ed una di polli. Se non stai zigzagando tra la frutta e le galline ma sei un pedone anche tu…beh. Peggio per te.
Non ci resta che ridere. E di gusto.
Camminando nelle viuzze labirintiche della vecchia Marrakech, le porte semichiuse delle moschee non possono non incuriosirti. E ti guidano, nel tuo tentar di sbirciare all’interno i tappeti, fino a Sud. Fino alla Kasba.
Tra ammoniti, ametiste, rose del deserto e l’odore pungente dello zenzero, perdersi non è tanto remoto. Mi lascio meravigliare dalle porte centenarie disseminate tra le mura color del fuoco, in tutta la loro possanza. In tutto il loro splendore di cicogne.
Quando lo sguardo si apre sull’interno distrutto del Badii un sussulto ti rapisce lo stomaco.
Gli aranceti dicembrini si distendono fino al lato opposto del cortile antico e ti spalancano la vista su nuove mura consunte dal vento antico. Sull’orizzonte. Sul cielo. Su quest’immensa anima di kajal.
E tra tutto, come se fossero sopra i tuoi piedi: le nevi dell’Atlante. Le Alpi Berbere. Nel bianco mozzafiato della luce meridiana si confondono con il piumaggio morbido delle lunghe cicogne, accovacciate sui loro nidi di paglia. E di Scirocco.
Un pittore qui impazzirebbe. Grazie a Dio mi limito a scrivere.
Le tombe saadiane sono un luogo perduto nel tempo e nella perfetta simmetria del loro popolo.
Ci infiliamo tra i cunicoli sempre più stretti che varcano il passaggio del cimitero.
L’aria ancestrale. La respiro in tutta la magnificenza dei legni intarsiati e delle decorazioni perpetue. Tra i versetti neri. E gli occhi dei gatti. Nell’erba.
Oasi. Pace. Per poi riaddentrarmi nel marasma poliglotta, dentro il cielo aperto.
Ogni giorno Rachida ci prepara qualcosa di sempre più abbondante. Ha capito che Tu ami la marmellata di fragole…“quella rossa”, per capirci. E riempie una scodelletta solo per te.
La valle dell’Ourika alterna il rosso del terreno al verde delle foglie dei fichi d’india. Non c’è scampo. La complementarietà qui è palese. La saturazione piena. Anche un grigio è carico sotto il sole del Marocco, splendente quanto i denti d’oro della massaia berbera che con spensieratezza versa il tè alla menta nel mio bicchiere. Il becco della teiera argentata. Un filo di tè lungo un braccio. Il fondo di vetro.
Tutt’intorno menta. E un enorme pane di zucchero spezzettato a grandi linee in cubi.
Io, mentre mi ammalia e mi acconcia il foulard tra i capelli, penso che sarei riuscita a sbrodolarlo sul vassoio anche appoggiando la teiera sull’orlo della mia tazza di casa.
Mi cade un mito: “Il cammello ha una gobba sola“. Tra me e me, continuo a dubitare.
Hamid giocherella con il piccolo bianco, morbidissimo e mordacetto: adora afferrargli le scarpe, e lui gli arruffa tutto il pelo del collo.
Con fatica – mia – scavalchiamo ogni roccia di granito ed attraversiamo i piccoli ponti di tavole di legno che di tanto in tanto costringono a passare da un lato all’altro del torrente. L’aria dell’Atlas, questo il suo nome, è fredda della neve là in alto e secca la gola affaticata di chiunque tenti di forzarla a scaldarsi mentre quasi ci si arrampica tra le sue rocce. Gelide. Ma tra i nostri passi e la mia imbranataggine alla Gollum, vedere apparire le cascate rende tutto più tiepido.
Prima è il viaggio. Poi la scoperta.
L’acqua dimostra di esistere anche qui. In tutta la sua maestosa essenza d’elemento di vita. Il solo tocco dell’acqua pressoché ghiacciata, acqua di monte, è il preambolo a sentirmi infuocata la mano. Chiudo gli occhi. E stringo la tua.
Dolce. Svegliarsi con quel sapore di narghilé ancora tra le guance era immancabile. Marrakech ti devasta la percezione, e lo fa con fascino e sovrabbondanza. La vedi specchiarsi negli occhi delle ragazze, nei teloni del festival del cinema, nei piatti blu della prima bancarella del souk. Nella floridezza delle piante e dei cactus del giardino Majorelle. Nel rumore delle carrozze. In se stessa. Nella sua caotica folla. Nella sua sorridente accoglienza.
L’aereo.
È vero. Era inopinabile anche prima, ma adesso lo tasti sulle labbra nella virata. Il sole è più grande. Mi brucia. Tento un sorriso. Forse esiste davvero il mal d’Africa. Ma ti restituirò una parola. L’unica che ho imparato. La più tua:
“Bi-sahà”.
[Marrakech, Marocco. 04-08 Dicembre 2007]